lunedì 12 marzo 2007
Turbamenti alcolici
Arrivare sull'isola è semplice: l'unico mezzo è la nave. Una situazione strana, quasi meccanica: una nave enorme, in cui l'unico passeggero sono io. L'attracco è istantaneo, senza esitazioni, come su un binario. Poi la passerella si abbatte improvvisamente senza rumore su un molo di cemento, un molo duro e grigio di pietra screziata. Non c'è nessuno nel porticciolo, né gli occhiali mi avvertono di alcuna presenza. Silenzio assoluto. Non c'è anima viva, neppure il suono delle onde che, leggere, s'infrangono sui bordi della banchina. Un uccello rotea lento in alto nel cielo, mentre il sole di SL tramonta a poco a poco colorando il cielo terso di una sfumatura rossastra sempre più intensa.
Non sono perfettamente tranquilla. Sarà lo shiraz sudafricano che sto bevendo in un grande bicchiere di cristallo. Un vino di classe che ho comprato all'enoteca qui all'angolo, giusto per ricordarmi di essere viva e per sottolineare a me stessa – soprattutto in questo periodo difficile – la grande soddisfazione di non condividere questo piacere con nessun altro. La testa mi pesa leggermente e un vago senso di torpore e sonnolenza ha preso il posto della prima, illusoria sensazione di leggera euforia.
Mi sono trasferita per caso in questo strano posto, arrivandoci senza volerlo. Sto ora attraversando lentamente il piccolo villaggio in cui non c'è nulla, se non case sbarrate dalle finestre buie. Non un cartello, non un'indicazione. Niente. Il piccolo parco sulla destra della stradina è avvolto da una leggera nebbia che si sposta dolcemente al passaggio; viene risucchiata dal movimento e lascia alle spalle di chi l'attraversa una leggera scia biancastra senza consistenza.
Gli occhiali mi avvertono improvvisamente della presenza di qualcuno. È lontano. Attivo la minimap per capire dove si trovi e il punto verde prende forma a un centinaio di metri da me, in cima alla piccola strada che s'inerpica dritta, quasi fosse tagliata nella collina con un enorme coltello. Il sim non permette nulla, né il volo, né attività di costruzione, nulla. L’isola non ha nome, se non le coordinate matematiche sulla mappa.
È quasi buio ormai e, in lontananza, un lucore appannato prende a poco a poco la forma di un falò, mentre l'indicazione dell’avatar in cima alla collina appare gradualmente sempre più evidente nell'oscurità. Il buio è sempre più fitto man mano che procedo, ma resisto alla tentazione di cambiare la posizione del sole lasciando le tenebre invariate. È notte infatti secondo il fuso orario di SL. Passo fra un gruppo di case dall'intonaco sgretolato e dal tetto sconnesso in più punti, mentre la leggera nebbia si accumula sempre più spessa all'altezza delle caviglie creando uno strano effetto visivo.
Sarà l'effetto del vino, sarà la stanchezza per l'ora tarda, sta di fatto che inizio a sentire una vaga inquietudine, come se qualcosa non andasse per il verso giusto.
La presenza è sempre più vicina. S'intravede a malapena la figura avvolta nella leggera nebbia che sta a poco a poco salendo. È una figura di donna che danza alla luce del falò. Il nome appare all'improvviso, impronunciabile, di chiara derivazione germanica. Danza a testa bassa, con una folta capigliatura nera che le copre parte del volto. Non sembra notare la mia presenza. Attivo la telecamera e mi avvicino zoomando all'altezza della faccia. Sorride, ma ha gli occhi chiusi, come in uno stato di leggera trans.
Improvvisamente appare un messaggio di benvenuto in IM, un messaggio imperfetto, come se stesse traducendo direttamente dal tedesco o da chissà quale altra lingua germanica.
Controllo il profilo. Niente. A parte la data di nascita che risale alla metà del 2005 non ci sono indicazioni di alcun genere.
– Il posto è tranquillo – dice la donna continuando a danzare senza fermarsi. Un ballo sgraziato, disarmonico, come se fosse trasportata da una forza esterna.
– Come mai non c'è nessuno? – chiedo avvicinandomi. Tiene le braccia penzoloni; le mani lunghe e affilate sfiorano l'abito di pesante panno bordeaux.
– La gente del villaggio arriverà. È ora ormai..." – dice mangiando leggermente le parole, quasi stesse scrivendo freneticamente sulla tastiera. – Poi verrà anche il principe... –
– Il principe? Che principe? – chiedo, mentre la sensazione di pesantezza mentale lascia a poco a poco il posto a un senso di inquietudine sempre più accentuato. Un leggero brivido lungo la schiena mi fa per un attimo sussultare.
– Il padrone dell'isola... lui vive lassù, nel castello – dice voltandosi verso la collina, ma continuando a seguire la sua danza strana e incomprensibile.
In quel momento il luogo si affolla di gente. Tre, quattro, cinque avatar abbigliati in modo strano, con vestiti di un'altra epoca. Non parlano. Rimangono fermi a qualche metro da me, immobili, gli occhi sbarrati senza espressione.
Inizio ad aver paura. Mi viene a poco a poco la tentazione di teletrasportarmi altrove, ma la curiosità mi tiene inchiodata a quella strana congrega di persone.
Tutti hanno nomi germanici. Saluto in tedesco, ma nessuno risponde. Dagli altoparlanti fino a quel momento assolutamente silenziosi viene ora il fruscio del vento fra le fronde del grande albero che si muove appena sulla sinistra dello spiazzo. Al gruppo si aggiunge una sesta persona, un ragazzo semi stracciato, scalzo, che scende lentamente dalla stradina che porta all’ingresso del castello. Anche lui ha gli occhi sbarrati, dalle pupille biancastre, inespressive, come gli occhi di un cieco. La donna aggiunge:
– Non parlare con loro. Non rispondono. Non ne sono capaci. –
– Chi sono? – chiedo più per avere la conferma che la voce continui a parlarmi, che non per ottenere una risposta esaustiva.
– Gente da nulla – mi dice la donna.
In quel momento una figura alta, vestita di scuro, compare alla mia destra. Si muove a scatti, come un lungo insetto legnoso. Inizia a parlare con la donna che, in quel momento, arresta il suo ballo e solleva la testa. La capigliatura flexi le copre parte del volto. Ha gli occhi aperti ora, inespressivi come quelli del gruppo di persone che rimangono immobili. Poi inizia a parlare con la figura in nero in una lingua strana. Sembra antico alto tedesco. Dicono una serie di cose che non capisco, muovendo le mani veloci sulla tastiera virtuale. Saluto di nuovo in tedesco, questa volta rivolgendomi all’uomo in nero. Si rivolge a me in francese:
– Buongiorno signorina Fleury, benvenuta sulla mia isola. Deve scusare la gente del luogo. Nessuno di loro parla, ma sono estremamente curiosi. Sa, in questo posto non viene mai nessuno…”
Si sposta leggermente aggiungendo qualcosa nella sua lingua alla donna vestita di rosso e voltandosi verso di me.
Ha un volto arrossato, come se fosse affetto da un grave eritema solare. Gli occhi sono neri, profondi. Si muovono di continuo.
– Lei è molto carina… interessante… ho letto il suo profilo…” – dice avvicinandosi
Mi faccio indietro. Non mi piace la situazione. Inizio ad avere paura, anche se mi rendo conto che potrei teletrasportarmi o spegnere il computer.
– Non tema – mi dice avvicinandosi ancora. Cerco di indietreggiare, ma qualcosa mi blocca. Cerco di ruotare su me stessa. Niente. Neppure la telecamera funziona. Noto il volto dell’uomo che ormai invade l’intero schermo, gli occhi neri che mi osservano dall’altra parte del monitor. Ho un brivido. Sembrano trasmettermi qualcosa direttamente nel cervello: una sensazione, il ricordo di un antico profumo, un sapore dimenticato. Poi tutto sparisce. Lo schermo diventa nero. Il sistema di resetta e torna, brillante, lo schermo di Windows abbagliandomi all’improvviso, mentre un senso di profonda angoscia mi attraversa per un istante facendomi rabbrividire.
Ho deciso di non ricollegarmi. Non so se per paura o per non perdere quella strana sensazione che mi ha pervaso per circa mezz’ora. Lo sguardo dell’uomo in nero è ancora così vivo che non riesco a pensare ad altro. Mi bevo quell’ultimo vino ancora nel bicchiere in un fiato, poi accendo l’impianto stereo. Le note dei Rippingtons invadono l’appartamento rompendo quella sensazione di vaga angoscia che l’alcool rende ancora più accentuata. Mi rendo conto all’improvviso di quanto mi abbia turbato la breve avventura sull’isola, un turbamento profondo che la razionalità non riesce a superare.
Mi metto a letto con un leggero mal di testa in arrivo e lascio la luce del corridoio accesa. Non so, ma non mi sento tranquilla…
giovedì 1 marzo 2007
Eminent Victorians
"Signorina Fleury, gradisce un altro pasticcino?" mi chiede la piccola signora seduta sulla punta della seggiola. Ha un’acconciatura ricercata e il suo avatar emana una serie di piccole farfalle variopinte che si perdono nell’atmosfera della tea house.
"No grazie, oggi ho esagerato con i dolci. Poi mi sa che vi dovrò lasciare quanto prima. Ho un sacco di cose da sbrigare e il tram a vapore passerà a minuti".
Il dott. Fairweather si alza nel suo doppiopetto nero di taglio londinese e mi fa un leggero inchino.
Mi sento un po' impacciata nel nuovo vestito, soprattutto per l'intelaiatura metallica che si rende scomoda soprattutto quando devo sedermi. La coppia si avvicina e mi saluta in modo formale, usando forme linguistiche ormai fuori moda. Almeno da 70 anni. Mi volto verso la porta...non è male il cappellino a fiori che ho comprato di recente all'atelier all'angolo. Moda francese, dicono. Sarà, ma io a Parigi un taglio e un tessuto del genere non li ho mai visti.
Mi dirigo verso la strada inciampando leggermente nelle falde anteriori del vestito, mentre una coppia aspetta il tram dall'altra parte della strada. Lui è vestito di tutto punto con grandi favoriti che gli scuriscono le guance. Porta sotto braccio una mezza tuba lucida e un bastone da passeggio con il pomo d'argento. Lei è in rosa. Appoggiato al braccio porta un ombrellino intonato cromaticamente al colore del vestito, vestito vaporoso di chiara fattura italiana. Continuo a inciampare, ma i due non lo danno a vedere, o almeno così sembra. Mi salutano cordialmente, mentre - in lontananza - la scia bianca di vapore prelude a un imminente arrivo del tram.
Non sono ancora riuscita a vincere le piccole scomodità del mondo inglese di fine ottocento, che da qualche tempo sto frequentando con sempre maggiore assiduità, ma questo non è un problema. Il mondo vittoriano è un mondo che da sempre sento come mio, ben prima del mio arrivo su SL, soprattutto dopo quel lungo periodo trascorso a Londra ormai più di un decennio fa.
Mi sono lasciata per qualche momento alle spalle le soluzioni high-tech e la tecnologia avanzata dei quartieri giapponesi e americani di SL e ho scoperto quasi per caso un mondo strano, fatto di révenants culturali, di rievocazioni linguistiche ormai sepolte da decenni, di sensazioni e di gusti old fashioned e di una tecnologia avanzatissima fatta di macchine a vapore, aerostati e velocipedi.
E' forse questo uno degli aspetti che rendono SL più gioco e meno realtà parallela alla RL. Rivestire i panni di una signorina francese di fine ottocento è certamente allettante ma, là dove nella normale vita digitale di SL quello che cambia è sostanzialmente il medium fisico nello svolgimento dei fatti (mentre ci si presenta emotivamente e culturalmente sempre come se stessi), in questo caso quello che deve cambiare è una mentalità, sono gli atteggiamenti, il modo di comportarsi e di parlare. Il divertimento è assicurato, anche se c'è sempre dietro l'angolo il rischio di creare una caricatura di se stessi e di divenire lo zimbello di chi, invece, coltiva da anni questo tipo di interessi.
Sta di fatto che l'impersonificazione, quello che gli anglosassoni definiscono "role play", è qualcosa di simpatico e coinvolgente che, sebbene pervada essenzialmente la dimensione ludica, si presta a ore di sano divertimento e - perché no - di indubbio accerscimento culturale.
Impersonificare una signorina francese dell'epoca di Dreyfuss in viaggio nell'Inghilterra del Diamond Jubilee o della grande esposizione universale di Londra non è però qualcosa di semplice. Bisogna valutare una serie di atteggiamenti, dosare in modo sapiente elementi svincolati dalla normale esperienza quotidiana e, soprattutto, tentare di continuo una ricostruzione storica di difficile attuazione, spesso perché non sempre quello che si crede sia filologicamente corretto risponde a un reale provato, visto che ormai - in buona parte - questo mondo e le sue caratteristiche formali e strutturali sono qualcosa di sostanzialmente dimenticato.
Il viaggio in tram è piacevole. I due si siedono qualche posto più avanti, così non corro il rischio di venir coinvolta in una discussione che mi svierebbe dall'osservare il panorama al passaggio. Passiamo in mezzo a una fila di piccole case dal tetto a punta in ardesia circondate da giardini curati nei minimi particolari. Una piccola chiesa torreggia fra lapidi grigie sconnesse, mentre una signorina pettoruta passa lentamente lungo il marciapiede, anticipata da qualche metro da un carlino grigio chiaro.
Non c'è quasi nessuno per strada. Ogni tanto, lungo il marciapiede, intervallata regolarmente da alberi in fiore, compare la cassetta rossa della Royal Mail. Il tram procede leggermente a strappi, fermandosi di tanto in tanto per raccogliere gente in attesa. Un ragazzo con i calzoni alla zuava e in blusa da marinaretto si siede qualche posto più in là. Lontano, nel cielo, un dirigibile passa oscurando per un attimo il cielo terso di SL.
È una situazione ideale di tranquillità e relax mentale. Ho disattivato tutti i controlli automatici, radar, mappe e quant’altro proprio per vivere in modo quanto più totale e reale questa breve, ma interessante esperienza.
Un fabbrica sta vomitando tonnellate di residui neri che si disperdono nell'atmosfera, ma non c'è segno di fuliggine in giro, né il sentore di carbone nell'aria.
Un tale sta cercando di far sollevare un enorme uccello meccanico con la forza delle braccia. Si alza di qualche metro, ma ricade immediatamente sul terreno rimbalzando leggermente sulle ruote piene dai cerchi in legno duro.
Scendo dal tram e mi dirigo verso quello che viene conosciuto come il Dickens’ Village, un luogo incantevole, che tuttavia segna il punto di passaggio fra il mondo quasi reale dei vittoriani di SL e quella che è una ricostruzione per turisti di un mondo ormai perduto. Le piccole abitazioni, che si affacciano su una stradina, sono fitte di piccoli negozi in cui è possibile acquistare merci per turisti, cartoline, vestiti all’ultima moda nel quartiere di Shinjuku. La cosa inizia a disgustarmi. Esco da un negozietto e mi dirigo verso una piccola chiesa, l’unico posto in cui non sembra esserci traccia di ricostruito, di falsificato. Mi siedo su una panca e basculo con la telecamera per cercare di vedere l’effetto generale. La posizione non è certo devozionale, mi sembra più di essere seduta sullo sgabello di un bar di quart’ordine che non sulla panca di una chiesa. In quel momento entrano tre persone. Parlano fra loro in turco. Mi alzo e passo in mezzo a loro dirigendomi verso l’uscita. Mentre attivo il comando di sconnessione noto una domanda, la classica domanda su possibili prestazioni sessuali. Eccomi di nuovo in SL, nella sua parte peggiore, naturalmente.
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