mercoledì 11 luglio 2007

Gudrun

Quattro mesi di lontananza quasi obbligata da SL sono un'eternità. La maledetta ernia del disco che mi ha tenuta inchiodata a una poltrona per due mesi lontana da qualsiasi connessione in banda larga è svanita sotto i ferri del chirurgo. Un paio di settimane di riabilitazione, lunghe passeggiate con il mio angelo custode lungo i viali del Jardin du Luxembourg, un breve, intenso ritorno al mio lavoro e qualche puntata sporadica nel mondo fatato di SL: il tutto è bastato a farmi rivivere.
Già, rivivere.
Ma anche riuscire a scappare da Parigi, una città che negli ultimi mesi ho odiato come null'altro al mondo. L'ho lasciata qualche giorno fa con sollievo approdando in una Milano fresca e ventilata, ben diversa dalla sporca città afosa che pensavo di ritrovare dopo la mia lunga assenza.

L'idea di tornare a girare per SL si era invece affievolita col tempo, anche se i riscontri giornalistici sempre più insistenti in questi ultimi mesi - devo dire - mi hanno lasciata con l'impressione di perdere qualcosa di grande e di importante. Il bisogno quasi fisico di una connessione era quindi impellente, anche se la necessità di condividere sensazioni digitali rimane sempre un po' come il sesso o come il cibo: meno lo pratichi, meno te ne viene voglia.
Ho fatto uno sforzo, devo ammetterlo, ma forse ne è valsa la pena.
Certo è che le due Rossane sono molto cambiate in questo lungo periodo, non solo fisicamente (una più magra e tirata, l'altra più seria, con un diverso look), ma anche negli atteggiamenti (l'intraprendenza e l'effervescenza di prima sono venute meno a entrambe). Non sono però cambiate le abitudini: il mondo orientale tiene sempre legate entrambe a sé in modo spasmodico, come un cordone ombelicale infrangibile che porta le due personalità sempre più spesso a sognare mondi e spazi interiori difficili da condividere con chi sta loro vicino, soprattutto con chi non possa - per motivi, diciamo così, di ordine genetico - staccarsi culturalmente ed emotivamente dallo spazio culturale occidentale.
Trovare qualcuno che, come me, sia una mezzosangue, un miscuglio di razze, che abbia una personalità difficilmente
collocabile in questo o in quell'altro mondo (parlo della RL, naturalmente) è difficile. E' difficile nella vita reale, figuriamoci nel mondo digitale.
Tutto ciò è però un peccato, dato che, con una persona di tal fatta, tutto sarebbe molto più facile, come la sincronizzazione di due orologi collegati elettricamente fra loro.


Mi sono collegata a SL un tardo pomeriggio di domenica, momento ideale per sperare di incontrare qualcuno dei vecchi amici digitali; nessuno però era in linea. Ho vagato per un po' nei soliti luoghi una volta familiari, ora profondamente cambiati: il Phat's club, l'Italian Beach, lo Swinger's, il mio vecchio, amato locale olandese, in cerca di buona musica e di qualcuno con cui scambiare quattro chiacchiere. Nessuno di noto, solo gente intenta a ballare o a farsi i fatti propri, senza voglia o interesse nel coinvolgere una vecchia, antipatica signora dalla faccia orientale vestita in un tailleur démodé. Così ho deciso di trasferirmi a Nagaya tanto per sentirmi un po' più a casa, con l'idea di assaporare l'inconsistenza digitale di una zuppa di miso e, magari, provare il sapore da tempo dimenticato di un piatto di o
yako donburi.

L'incontro è stato casuale, quasi scontato: un sushi bar anonimo, un momento di svogliatezza, quasi di noia, che è sfociato in un'attrazione tanto profonda quanto strana e improbabile. Gudrun si è presentata come una visione di me stessa. Un po' più alta, ma con le medesime fattezze e con un senso dell'oriente così forte da vincolarmi in modo quasi sconveniente fin dal primo sguardo. E' arrivata leggera, le sue lunghe gambe abbronzate procedendo sinuosa con un'animazione raffinata, la migliore che abbia visto in SL.
Si è appollaiata sull'alto seggiolino del sushi bar a un paio di posti da me e ha ordinato un piatto di sashimi, lo sguardo perso verso un gruppo di avatar raccolti intorno a una panchina in ferro battuto.
La richiesta di informazioni dal profilo non è stata immediatamente illuminante. Solo una scritta in tedesco. Il testo di un componimento di Schiller sulla morte e le tenebre.
Un tipo solitario, certo, ma con un fascino straordinario, che traspariva anche solo dal modo di atteggiarsi seduta al bancone del bar. Sono restata incollata alla sua figura brandeggiando la telecamera e usando lo zoom per cercare di trovare delle imperfezioni nel suo avatar. Nulla: la perfezione fatta a persona.
Mi sono presentata in inglese e lei ha risposto in francese.

"Ho letto il suo profilo." mi ha detto. "Lei è francese, ho notato. Meglio. Non mi piace l'inglese. Non mi permette di esprimermi con la profondità che vorrei. Se per lei non è un problema...".

L'uso della forma linguistica alla seconda plurale mi ha creato un certo imbarazzo, ma l'ho lasciata continuare.


"Ho letto il suo profilo... interessante...", ha accennato portandosi alla bocca un pezzo di tonno intinto nella scodella di salsa di soia. "Mi sembra di leggere la mia vita... tanto tempo fa ormai..."


L'ho lasciata parlare avvertendo che solo così avrei potuto capire qualcosa di più. In compenso il senso d'attrazione cresceva a dismisura. Non riuscivo a togliere gli occhi dalla sua persona, perdendo in certi momenti il filo del discorso.
Abbiamo parlato per un po' del più e del meno e, da una serie di frammenti di informazioni, ne è scaturito un quadro interessante, sempre più strano e particolare... come se già sapessi con chi avessi a che fare: donna sola, figlia di un tedesco di Transilvania e di una giapponese. Nata a Cluj-Napoca, una vita divisa fra Kyoto e Londra.

Abbiamo lasciato il ristorante teletrasportandoci su una spiaggia, continuando a parlare passeggiando sulla rena inconsistente, mentre il sole a poco a poco passava dal bianco all'arancione cupo, al rosso scarlatto abbassandosi a scatti leggeri sull'orizzonte.
La sensazione del dejà-vu, intanto, si faceva sempre più acuta. Per un attimo ho avuto l'impressione che fossi io stessa a controllare domande e risposte, quasi rispondessi a me stessa. Ma nel momento in cui ho iniziato ad avere quella sensazione c'è stato un cambiamento improvviso.

Gudrun si è fermata e si è avvicinata guardandomi fisso. Il ricordo dell'esperienza sull'isola si è ripresentato spaventoso, come il segno forte e labile al tempo stesso di un sogno interrotto, mentre il suo sguardo ha iniziato a scrutarmi nel profondo aumentando in modo sempre più forte il mio senso d'inquietudine.

Ho tentato di chiederle qualcosa, una domanda banale, ma non ho ricevuto risposta. Solo quel continuo scrutarmi in modo sempre più insistente e pungente, che mi provocava una sensazione quasi fisica di angoscia e di panico, ma da cui non riuscivo a staccarmi.
A un certo momento la sua bocca si è atteggiata a sorriso, mentre
la sua carnagione ha iniziato a impallidire, le sue mani affusolate a mostrare i segni di un improvviso dimagrimento, quasi si stesse progressivamente asciugando, mettendo a nudo in modo sempre più evidente le ossa acute del suo scheletro. E io restavo lì, sulla spiaggia, affascinata da quella metamorfosi improbabile e tanto terribile.

L'ultimo ricordo che ho di Gudrun è il suo volto ossuto, scheletrico, che nulla aveva a che fare con lo splendore di qualche minuto prima, e i due occhi a mandorla che per un attimo hanno invaso lo schermo, che lo hanno attraversato come se fosse stato liquido penetrando in me stessa fin nel profondo trascinandomi verso un abisso d'angoscia.
Poi, in un istante, un reset del sistema ha fatto sparire lo schermo e la tensione è venuta improvvisamente meno nel volgere di una breve, inconsistente scarica di energia elettrostatica; un improvviso senso di liberazione, quasi fossi riuscita per un pelo a fuggire da un pericolo mortale.


Destini intrecciati, sdoppiamento della personalità, patologia psicologica? Non so proprio. Forse solo stanchezza. Ne ho già trattato e più passa il tempo meno riesco a trovare risposte convincenti. Mi è sembrato per un momento di vedere me stessa attraverso uno specchio distorto, come un'immagine di una Rossana leggermente diversa, appena sovrapposta a quella reale. Forse solo l'illusione di poter ritrovare qualcosa di irrimediabilmente perduto nel tempo, qualcosa che ancora permane nel profondo di me stessa e che, di tanto in tanto, ricompare togliendomi per un attimo la ragione.

martedì 24 aprile 2007

Western asiatico



L'ultimo ricordo della capitale del Tajikistan è un tramonto straordinario, come è possibile gustare solo in metropoli tentacolari, oppresse dalla caligine oleosa di una permanente cappa di smog. Dushanbe non è niente di tutto questo. Non è né Città del Messico né Pechino, tanto per intenderci; città invivibili, impossibili, soffocanti, di una vastità inquietante e opprimente, così come il loro tasso d'inquinamento, così come la loro bellezza.
Dushanbe è una piccola, noiosa, sporca città, come le tante disseminate nei vari Stati ex sovietici dell'Asia centrale, buona per produrre petrolio, focolai d'irredentismo islamista o essere usata come base avanzata per missioni militari. Nient'altro. I suoi tramonti sono però qualcosa di straordinario: rossi accesi che si stemperano liquidi in tonalità che vanno dal giallo intenso all'ocra pallido e slavato, come i riflessi fluidi di vernici industriali mescolate appena fra loro.

Ho trascorso una ventina di giorni a Dushanbe, presso l'aeroporto cittadino, sede della base aerea francese dell'ISAF; una parentesi accettata per fuggire a una depressione incombente provocata da una serie di profonde delusioni personali. Amicizie che si sono dissolte come volute di fumo nella brezza leggera della vita e che ancora non riesco ad accettare se non con un tuffo di disperazione nel profondo di me stessa.

La missione è finita da un paio di giorni e ora me la sto prendendo comoda, da turista, a Istanbul, fra un bagno in piscina, una passeggiata fra le piccole strade contorte del Kapali Carsi e brevi, ma intensi ritorni su SL, nell'unica dimensione che più mi è mancata in questo lungo periodo fatto di odore pungente di kerosene, di rumori assordanti di Mirage in decollo e di lunghi, interminabili debriefing post-missione.
Mi trovo a osservare un colore simile, in un cielo terso, senza nuvole, seduta nella hall dell'albergo, il portatile aperto sulle ginocchia. Più in là un gruppo di uomini d'affari he parlano veloce nella lingua locale, senza curarsi di me. Il paesaggio è riarso da un sole senza calore, mentre un effetto di polvere in sospensione rende gli oggetti lontani sfumati e leggermente fuori fuoco. Sono capitata qui facendo una ricerca casuale. Sono vestita pesante, con un abbigliamento da metà ottocento, residuo della mia ultima passeggiata per il sim vittoriano. Dove mi trovo sembra essere un luogo dimenticato da Dio e dagli uomini. Il clima è desertico, caldo, ostile. Il nome del sim pure: Tombstone.
Non ho mai amato gli western. Mi hanno sempre annoiata. Ma ritrovarmi qui nei panni di una turista francese in un paese minerario americano nella seconda metà dell'800 ha qualcosa di eccitante.

Il luogo non è certo molto frequentato. Sulla minimap sono presenti solo due punti verdi, lontani, in mezzo a un complesso di edifici che non riesco ancora a visualizzare. Mi avvicino al paese sollevando al passaggio una leggera polvere rossastra.
Le case in legno di stile americano si visualizzano con difficoltà. Compaiono piccole botteghe. Un sarto, dal gusto assai dubbio, ideale per il livello degli abitanti di questa ex colonia del grande impero britannico. Un emporio che vende un po' di tutto: dall'abbigliamento per squaw agli stivali da cowboy, ai cappellini da signora, falsa copia di una moda europea ben più raffinata.
Mi infilo in un'armeria, giusto per la soddisfazione di completare la mia dotazione di armi con qualcosa che sia consono all'ambiente. La scelta cade naturalmente su una Derringer, la pepperbox però, a quattro colpi. Un po' più efficace della versione bicolpo da giarrettiera. Mi rendo conto che sto entrando nella parte. Che bello essere di nuovo su SL.

Il sim sembra convincente: prevede un atteggiamento da role play che per me è una novità. Dovrei leggere le istruzioni, ma lascio perdere. Riesco a fingere con me stessa, figuriamoci con gli altri...
L'uso della Derringer è semplice. Al momento dell'utilizzo è comparsa una finestra in cui sono evidenziate le munizioni in canna e il livello di vita dell'utilizzatore. Ma che succederebbe se dovessero uccidermi?

I due punti sulla mappa si stanno dirigendo verso di me. Provo a vedere cosa succede allontanandomi un po' verso l'albergo del paese. Non c'è nessuno naturalmente. Mi siedo a un tavolo e aspetto. I due tipi parlano fra loro in tedesco, anzi, per essere più precisi, in Schwitz-deutsch; lo noto dalle voci che appiaiono sbiadite sulla sinistra dello schermo. Restano fuori dal locale per un attimo, poi entrano con forza spalancando la porta in modo quasi teatrale: sembrano personaggi usciti da un film di John Wayne. Il primo indossa una camicia bianca, sporca, con le maniche rivoltate. Veste un completo scamosciato con le frange; i sovrapantaloni bisunti che lasciano intravvedere due stivali scuri impolverati. Noto spuntare dalla fondina l'impugnatura di una pistola di grosse dimensioni, con tutta probabilità una Smith and Wesson modello 1869. L'altro è un uomo anziano, vestito di nero, con un lungo impermeabile e la catena dell'orologio che lancia bagliori dorati sopra il panciotto. Ha in testa un cappello nero, pulito, che contrasta con i folti baffi bianchi. Ha in mano un fucile, il classico Winchester con la maniglia di ricarica.

Mi salutano in inglese e inizia la farsa...


"Ehi bella, perché non vieni a farti un giretto con noi? Hai odore di pulito tu... Da dove vieni? Dalla città?"

"Sono francese" rispondo. "Cosa c'è di bello da queste parti?"

I due si avvicinano. Mi alzo in piedi. Non so perché, ma qualcosa mi dice che la situazione stia degenerando. Il bovaro inizia a spingermi in un angolo.

"Tu sei bella", dice continuando a spingermi. "Con una come te ci sono tante belle cose da fare da queste parti" dice il tipo. "E noi adesso ci divertiamo un po'...Dai vieni su, ci sono tante stanze libere..."

Non capisco se entrare nella parte debba obbligarmi a fare la puttana, oppure io possa reagire in qualche modo. Provo a non dargliela vinta usando i mezzi che il sim mi mette a disposizione. Mi viene da ridere pensando alla situazione e al fatto che sia tutta una commedia, ma nella sala aleggia un'atmosfera strana, che sembra andare al di là del gioco dell'interpretazione.
Il tipo in nero si tiene leggermente in disparte, mentre riesco a liberarmi e a correre verso l'uscita.
I due mi seguono. L'atteggiamento è ostile, come già successo più volte in questo strano mondo in cui la violenza e il sesso sono sempre dietro l'angolo, in agguato.

"Dai vieni con noi" dice il bovaro. "Ti promettiamo di non farti male".

Attivo la visualizzazione a mouse e impugno la pepperbox.

"Oddio che paura!" dice il tipo in nero.

"Non costringetemi a usarla" urlo mentre il tipo dalla camicia mi raggiunge. Per un momento passo alla visualizzazione classica e noto che il tale mi ha afferrato per un braccio. Ritorno in visualizzazione mouse e gli sparo a bruciapelo all'altezza del fianco sinistro. Il tale cade in ginocchio in una posizione da vero film western.
Poi un lampo. Lo schermo s'arrossa. Mi rendo conto di guardare verso il cielo. Una fucilata mi ha fatto perdere tre punti vita su quattro.
Attivo la telecamera esterna e la scena mi riempie d'angoscia. Mi vedo semidistesa in posizione disarticolata, il tipo in camicia che sta cercando di rialzarsi e il tale in nero che mi punta il fucile sullo sterno. Torno in modalità mouse e gli scarico la pepperbox all'altezza dell'inguine. Noto sulla sinistra comparire una bestemmia in tedesco. Poi un altro lampo. Il cielo diventa sempre più scuro, i contorni delle cose perdono definizione, mentre lo schermo si annebbia. Sto morendo. Stacco la connessione e spengo il computer.

I businessmen stanno ordinando da bere. Il cameriere turco mi lancia un sorriso abbagliante sotto un paio di folti baffi neri; ne approfitto per chiamarlo con la mano e ordinare il mio solito ayran. Appoggio la testa alla poltrona e mi tolgo le scarpe. Sono seduta di fronte alla grande vetrata dell'hotel e lascio che lo sguardo vaghi per un po' sui tetti delle case della città. Un mare di tetti su cui il cielo di aprile inizia gradualmente ad arrossarsi. Nuvole sfilacciate restano immobili intorpidite, senza consistenza, lontane.
E' un tramonto diverso questa volta. Forse il più bello di tutti. Mi osservo nel riflesso della vetrata. Sto dimagrendo ancora; le ossa delle spalle traspaiono sotto la camicetta di Dolce e Gabbana che ho comprato ieri in centro. Lo so e non so perché me ne preoccupo: è solo l'effetto di una situazione naturale.
Sono morta ormai, ma non è un problema; era scritto che prima o poi dovesse succedere.

martedì 17 aprile 2007

Crisi emotive ed esperienza digitale



Dopo quasi quattro mesi di peregrinazioni per gli asettici e silenziosi mondi di SL le cose iniziano gradualmente a cambiare. Non tanto per una progressiva, inevitabile riduzione dell'entusiasmo, ma per una serie di fattori che trovano la loro prima risposta in un accumulo progressivo di esperienza. Certo, l'atteggiamento entusiasta da newbie che caratterizza le prime settimane di collegamenti inizia a sfumarsi a poco a poco. Il tutto si stempera in una serie di consuetudini e di atti sempre più uguali, trasformando le attività liberatorie di SL in una routine; una routine sempre migliore in certi casi rispetto a quella del mondo reale, ma non per questo meno ripetitiva e - talvolta - monotona.
Parlavo dell’esperienza: è logico che chi conosca sempre meglio le regole sociali di un ambiente ne diventi gradualmente il depositario. Questo capita anche nel mondo digitale e, sempre più spesso, avviene che chi si aggiri per più tempo planando fra alberi virtuali o passeggiando fra le deserte strade di Nagaya diventi una sorta di guida, un mentore che – in alcuni casi – garantisce ai newbie nei paraggi qualche dritta circa i comportamenti, le abitudini e le operazioni da attuare per rendere la propria vita digitale un po' meno complicata.
Come si è detto, però, l'esperienza è anche la somma di fattori che nel tempo tendono ad appiattirsi. Si tratta di una sensazione che non ho provato solo io stessa, ma che da qualche tempo coinvolge persone che mi sono particolarmente care.
Tutto inizia nel momento in cui si prende l'impegno con un datore di lavoro, o con più di loro, come nel mio caso. Non esiste più l'entusiasmo del cazzeggiamento, della perdita di tempo programmata per il solo piacere di stare insieme a qualcuno; che poi, attenzione, non è mai né cazzeggiamento, né perdita di tempo, ma il vero modo di trascorrere gli attimi della propria vita secondo quanto dovrebbe essere, non secondo quanto imposto dalle restrittive e bieche regole della società reale.
Sì perché SL è disgraziatamente un mondo parallelo, alternativo finché si vuole al mondo reale, in cui però, volente o nolente, c’è sempre il rischio di ricadere nelle squallide abitudini che tanto funestano la vita di tutti i giorni, non ultima quella di dimenticare i veri valori della vita per rispettare impegni che – almeno una volta – potrebbero veramente andare a farsi fottere.
È questo uno sfogo principalmente contro me stessa, perché mi rendo conto di stare per perdere persone a cui mi sento fortemente affezionata, che rappresentano loro stesse il nucleo portante di questo mondo, un mondo a cui devo molto. SL per me non è solo una curiosità, è una cura che mi permette di staccare quasi completamente dalle difficoltà emotive e pratiche della vita reale, una vita che - soprattutto nell'ultimo periodo - in certi momenti è diventata veramente intollerabile.
Ho passato un momento di profonda crisi che mi ha spinto quasi a cancellare l'account a fare sparire il mio blog, con l'idea di rimanere solo un ricordo nella memoria delle persone che mi sono state vicino in questi lunghi mesi. Un po' come facevo da ragazza quando andavo alle feste: tutto finiva nel momento più bello, proprio per non restare fino alla fine e vedere un momento di gioia spegnersi gradualmente con il passare delle ore.
Poi mi sono resa conto che è soprattutto alle persone che mi hanno accompagnato in questi lunghi mesi che devo gli entusisami e la pienezza della mia seconda vita. Non avrei il coraggio di deluderli.

lunedì 12 marzo 2007

Turbamenti alcolici



Arrivare sull'isola è semplice: l'unico mezzo è la nave. Una situazione strana, quasi meccanica: una nave enorme, in cui l'unico passeggero sono io. L'attracco è istantaneo, senza esitazioni, come su un binario. Poi la passerella si abbatte improvvisamente senza rumore su un molo di cemento, un molo duro e grigio di pietra screziata. Non c'è nessuno nel porticciolo, né gli occhiali mi avvertono di alcuna presenza. Silenzio assoluto. Non c'è anima viva, neppure il suono delle onde che, leggere, s'infrangono sui bordi della banchina. Un uccello rotea lento in alto nel cielo, mentre il sole di SL tramonta a poco a poco colorando il cielo terso di una sfumatura rossastra sempre più intensa.

Non sono perfettamente tranquilla. Sarà lo shiraz sudafricano che sto bevendo in un grande bicchiere di cristallo. Un vino di classe che ho comprato all'enoteca qui all'angolo, giusto per ricordarmi di essere viva e per sottolineare a me stessa – soprattutto in questo periodo difficile – la grande soddisfazione di non condividere questo piacere con nessun altro. La testa mi pesa leggermente e un vago senso di torpore e sonnolenza ha preso il posto della prima, illusoria sensazione di leggera euforia.

Mi sono trasferita per caso in questo strano posto, arrivandoci senza volerlo. Sto ora attraversando lentamente il piccolo villaggio in cui non c'è nulla, se non case sbarrate dalle finestre buie. Non un cartello, non un'indicazione. Niente. Il piccolo parco sulla destra della stradina è avvolto da una leggera nebbia che si sposta dolcemente al passaggio; viene risucchiata dal movimento e lascia alle spalle di chi l'attraversa una leggera scia biancastra senza consistenza.
Gli occhiali mi avvertono improvvisamente della presenza di qualcuno. È lontano. Attivo la minimap per capire dove si trovi e il punto verde prende forma a un centinaio di metri da me, in cima alla piccola strada che s'inerpica dritta, quasi fosse tagliata nella collina con un enorme coltello. Il sim non permette nulla, né il volo, né attività di costruzione, nulla. L’isola non ha nome, se non le coordinate matematiche sulla mappa.
È quasi buio ormai e, in lontananza, un lucore appannato prende a poco a poco la forma di un falò, mentre l'indicazione dell’avatar in cima alla collina appare gradualmente sempre più evidente nell'oscurità. Il buio è sempre più fitto man mano che procedo, ma resisto alla tentazione di cambiare la posizione del sole lasciando le tenebre invariate. È notte infatti secondo il fuso orario di SL. Passo fra un gruppo di case dall'intonaco sgretolato e dal tetto sconnesso in più punti, mentre la leggera nebbia si accumula sempre più spessa all'altezza delle caviglie creando uno strano effetto visivo.

Sarà l'effetto del vino, sarà la stanchezza per l'ora tarda, sta di fatto che inizio a sentire una vaga inquietudine, come se qualcosa non andasse per il verso giusto.

La presenza è sempre più vicina. S'intravede a malapena la figura avvolta nella leggera nebbia che sta a poco a poco salendo. È una figura di donna che danza alla luce del falò. Il nome appare all'improvviso, impronunciabile, di chiara derivazione germanica. Danza a testa bassa, con una folta capigliatura nera che le copre parte del volto. Non sembra notare la mia presenza. Attivo la telecamera e mi avvicino zoomando all'altezza della faccia. Sorride, ma ha gli occhi chiusi, come in uno stato di leggera trans.
Improvvisamente appare un messaggio di benvenuto in IM, un messaggio imperfetto, come se stesse traducendo direttamente dal tedesco o da chissà quale altra lingua germanica.
Controllo il profilo. Niente. A parte la data di nascita che risale alla metà del 2005 non ci sono indicazioni di alcun genere.

– Il posto è tranquillo – dice la donna continuando a danzare senza fermarsi. Un ballo sgraziato, disarmonico, come se fosse trasportata da una forza esterna.
– Come mai non c'è nessuno? – chiedo avvicinandomi. Tiene le braccia penzoloni; le mani lunghe e affilate sfiorano l'abito di pesante panno bordeaux.
– La gente del villaggio arriverà. È ora ormai..." – dice mangiando leggermente le parole, quasi stesse scrivendo freneticamente sulla tastiera. – Poi verrà anche il principe... –
– Il principe? Che principe? – chiedo, mentre la sensazione di pesantezza mentale lascia a poco a poco il posto a un senso di inquietudine sempre più accentuato. Un leggero brivido lungo la schiena mi fa per un attimo sussultare.
– Il padrone dell'isola... lui vive lassù, nel castello – dice voltandosi verso la collina, ma continuando a seguire la sua danza strana e incomprensibile.

In quel momento il luogo si affolla di gente. Tre, quattro, cinque avatar abbigliati in modo strano, con vestiti di un'altra epoca. Non parlano. Rimangono fermi a qualche metro da me, immobili, gli occhi sbarrati senza espressione.
Inizio ad aver paura. Mi viene a poco a poco la tentazione di teletrasportarmi altrove, ma la curiosità mi tiene inchiodata a quella strana congrega di persone.
Tutti hanno nomi germanici. Saluto in tedesco, ma nessuno risponde. Dagli altoparlanti fino a quel momento assolutamente silenziosi viene ora il fruscio del vento fra le fronde del grande albero che si muove appena sulla sinistra dello spiazzo. Al gruppo si aggiunge una sesta persona, un ragazzo semi stracciato, scalzo, che scende lentamente dalla stradina che porta all’ingresso del castello. Anche lui ha gli occhi sbarrati, dalle pupille biancastre, inespressive, come gli occhi di un cieco. La donna aggiunge:
– Non parlare con loro. Non rispondono. Non ne sono capaci. –
– Chi sono? – chiedo più per avere la conferma che la voce continui a parlarmi, che non per ottenere una risposta esaustiva.
– Gente da nulla – mi dice la donna.
In quel momento una figura alta, vestita di scuro, compare alla mia destra. Si muove a scatti, come un lungo insetto legnoso. Inizia a parlare con la donna che, in quel momento, arresta il suo ballo e solleva la testa. La capigliatura flexi le copre parte del volto. Ha gli occhi aperti ora, inespressivi come quelli del gruppo di persone che rimangono immobili. Poi inizia a parlare con la figura in nero in una lingua strana. Sembra antico alto tedesco. Dicono una serie di cose che non capisco, muovendo le mani veloci sulla tastiera virtuale. Saluto di nuovo in tedesco, questa volta rivolgendomi all’uomo in nero. Si rivolge a me in francese:
– Buongiorno signorina Fleury, benvenuta sulla mia isola. Deve scusare la gente del luogo. Nessuno di loro parla, ma sono estremamente curiosi. Sa, in questo posto non viene mai nessuno…”
Si sposta leggermente aggiungendo qualcosa nella sua lingua alla donna vestita di rosso e voltandosi verso di me.
Ha un volto arrossato, come se fosse affetto da un grave eritema solare. Gli occhi sono neri, profondi. Si muovono di continuo.
– Lei è molto carina… interessante… ho letto il suo profilo…” – dice avvicinandosi
Mi faccio indietro. Non mi piace la situazione. Inizio ad avere paura, anche se mi rendo conto che potrei teletrasportarmi o spegnere il computer.
– Non tema – mi dice avvicinandosi ancora. Cerco di indietreggiare, ma qualcosa mi blocca. Cerco di ruotare su me stessa. Niente. Neppure la telecamera funziona. Noto il volto dell’uomo che ormai invade l’intero schermo, gli occhi neri che mi osservano dall’altra parte del monitor. Ho un brivido. Sembrano trasmettermi qualcosa direttamente nel cervello: una sensazione, il ricordo di un antico profumo, un sapore dimenticato. Poi tutto sparisce. Lo schermo diventa nero. Il sistema di resetta e torna, brillante, lo schermo di Windows abbagliandomi all’improvviso, mentre un senso di profonda angoscia mi attraversa per un istante facendomi rabbrividire.

Ho deciso di non ricollegarmi. Non so se per paura o per non perdere quella strana sensazione che mi ha pervaso per circa mezz’ora. Lo sguardo dell’uomo in nero è ancora così vivo che non riesco a pensare ad altro. Mi bevo quell’ultimo vino ancora nel bicchiere in un fiato, poi accendo l’impianto stereo. Le note dei Rippingtons invadono l’appartamento rompendo quella sensazione di vaga angoscia che l’alcool rende ancora più accentuata. Mi rendo conto all’improvviso di quanto mi abbia turbato la breve avventura sull’isola, un turbamento profondo che la razionalità non riesce a superare.
Mi metto a letto con un leggero mal di testa in arrivo e lascio la luce del corridoio accesa. Non so, ma non mi sento tranquilla…


giovedì 1 marzo 2007

Eminent Victorians



"Signorina Fleury, gradisce un altro pasticcino?" mi chiede la piccola signora seduta sulla punta della seggiola. Ha un’acconciatura ricercata e il suo avatar emana una serie di piccole farfalle variopinte che si perdono nell’atmosfera della tea house.
"No grazie, oggi ho esagerato con i dolci. Poi mi sa che vi dovrò lasciare quanto prima. Ho un sacco di cose da sbrigare e il tram a vapore passerà a minuti".
Il dott. Fairweather si alza nel suo doppiopetto nero di taglio londinese e mi fa un leggero inchino.
Mi sento un po' impacciata nel nuovo vestito, soprattutto per l'intelaiatura metallica che si rende scomoda soprattutto quando devo sedermi. La coppia si avvicina e mi saluta in modo formale, usando forme linguistiche ormai fuori moda. Almeno da 70 anni. Mi volto verso la porta...non è male il cappellino a fiori che ho comprato di recente all'atelier all'angolo. Moda francese, dicono. Sarà, ma io a Parigi un taglio e un tessuto del genere non li ho mai visti.
Mi dirigo verso la strada inciampando leggermente nelle falde anteriori del vestito, mentre una coppia aspetta il tram dall'altra parte della strada. Lui è vestito di tutto punto con grandi favoriti che gli scuriscono le guance. Porta sotto braccio una mezza tuba lucida e un bastone da passeggio con il pomo d'argento. Lei è in rosa. Appoggiato al braccio porta un ombrellino intonato cromaticamente al colore del vestito, vestito vaporoso di chiara fattura italiana. Continuo a inciampare, ma i due non lo danno a vedere, o almeno così sembra. Mi salutano cordialmente, mentre - in lontananza - la scia bianca di vapore prelude a un imminente arrivo del tram.

Non sono ancora riuscita a vincere le piccole scomodità del mondo inglese di fine ottocento, che da qualche tempo sto frequentando con sempre maggiore assiduità, ma questo non è un problema. Il mondo vittoriano è un mondo che da sempre sento come mio, ben prima del mio arrivo su SL, soprattutto dopo quel lungo periodo trascorso a Londra ormai più di un decennio fa.
Mi sono lasciata per qualche momento alle spalle le soluzioni high-tech e la tecnologia avanzata dei quartieri giapponesi e americani di SL e ho scoperto quasi per caso un mondo strano, fatto di révenants culturali, di rievocazioni linguistiche ormai sepolte da decenni, di sensazioni e di gusti old fashioned e di una tecnologia avanzatissima fatta di macchine a vapore, aerostati e velocipedi.
E' forse questo uno degli aspetti che rendono SL più gioco e meno realtà parallela alla RL. Rivestire i panni di una signorina francese di fine ottocento è certamente allettante ma, là dove nella normale vita digitale di SL quello che cambia è sostanzialmente il medium fisico nello svolgimento dei fatti (mentre ci si presenta emotivamente e culturalmente sempre come se stessi), in questo caso quello che deve cambiare è una mentalità, sono gli atteggiamenti, il modo di comportarsi e di parlare. Il divertimento è assicurato, anche se c'è sempre dietro l'angolo il rischio di creare una caricatura di se stessi e di divenire lo zimbello di chi, invece, coltiva da anni questo tipo di interessi.
Sta di fatto che l'impersonificazione, quello che gli anglosassoni definiscono "role play", è qualcosa di simpatico e coinvolgente che, sebbene pervada essenzialmente la dimensione ludica, si presta a ore di sano divertimento e - perché no - di indubbio accerscimento culturale.
Impersonificare una signorina francese dell'epoca di Dreyfuss in viaggio nell'Inghilterra del Diamond Jubilee o della grande esposizione universale di Londra non è però qualcosa di semplice. Bisogna valutare una serie di atteggiamenti, dosare in modo sapiente elementi svincolati dalla normale esperienza quotidiana e, soprattutto, tentare di continuo una ricostruzione storica di difficile attuazione, spesso perché non sempre quello che si crede sia filologicamente corretto risponde a un reale provato, visto che ormai - in buona parte - questo mondo e le sue caratteristiche formali e strutturali sono qualcosa di sostanzialmente dimenticato.

Il viaggio in tram è piacevole. I due si siedono qualche posto più avanti, così non corro il rischio di venir coinvolta in una discussione che mi svierebbe dall'osservare il panorama al passaggio. Passiamo in mezzo a una fila di piccole case dal tetto a punta in ardesia circondate da giardini curati nei minimi particolari. Una piccola chiesa torreggia fra lapidi grigie sconnesse, mentre una signorina pettoruta passa lentamente lungo il marciapiede, anticipata da qualche metro da un carlino grigio chiaro.
Non c'è quasi nessuno per strada. Ogni tanto, lungo il marciapiede, intervallata regolarmente da alberi in fiore, compare la cassetta rossa della Royal Mail. Il tram procede leggermente a strappi, fermandosi di tanto in tanto per raccogliere gente in attesa. Un ragazzo con i calzoni alla zuava e in blusa da marinaretto si siede qualche posto più in là. Lontano, nel cielo, un dirigibile passa oscurando per un attimo il cielo terso di SL.
È una situazione ideale di tranquillità e relax mentale. Ho disattivato tutti i controlli automatici, radar, mappe e quant’altro proprio per vivere in modo quanto più totale e reale questa breve, ma interessante esperienza.
Un fabbrica sta vomitando tonnellate di residui neri che si disperdono nell'atmosfera, ma non c'è segno di fuliggine in giro, né il sentore di carbone nell'aria.
Un tale sta cercando di far sollevare un enorme uccello meccanico con la forza delle braccia. Si alza di qualche metro, ma ricade immediatamente sul terreno rimbalzando leggermente sulle ruote piene dai cerchi in legno duro.
Scendo dal tram e mi dirigo verso quello che viene conosciuto come il Dickens’ Village, un luogo incantevole, che tuttavia segna il punto di passaggio fra il mondo quasi reale dei vittoriani di SL e quella che è una ricostruzione per turisti di un mondo ormai perduto. Le piccole abitazioni, che si affacciano su una stradina, sono fitte di piccoli negozi in cui è possibile acquistare merci per turisti, cartoline, vestiti all’ultima moda nel quartiere di Shinjuku. La cosa inizia a disgustarmi. Esco da un negozietto e mi dirigo verso una piccola chiesa, l’unico posto in cui non sembra esserci traccia di ricostruito, di falsificato. Mi siedo su una panca e basculo con la telecamera per cercare di vedere l’effetto generale. La posizione non è certo devozionale, mi sembra più di essere seduta sullo sgabello di un bar di quart’ordine che non sulla panca di una chiesa. In quel momento entrano tre persone. Parlano fra loro in turco. Mi alzo e passo in mezzo a loro dirigendomi verso l’uscita. Mentre attivo il comando di sconnessione noto una domanda, la classica domanda su possibili prestazioni sessuali. Eccomi di nuovo in SL, nella sua parte peggiore, naturalmente.

domenica 25 febbraio 2007

Paura e violenza



È difficile pensare che SL possa essere fonte di inquietudine. Magari di noia, di irritazione, di svogliatezza… ma il senso di paura è, o dovrebbe essere, qualcosa di estremamente lontano dal concetto di mondo digitale; se non altro perché, mancando l’idea di violenza fisica e di morte, le aspirazioni verso sensazioni di questo tipo rimangono in realtà delle semplici osservazioni che riguardano più la sfera dell’estetica che non il mondo delle pulsioni emotive.
Là dove tuttavia la violenza verbale e la minaccia vengono utilizzati come elementi di intimidazione e di disturbo, la reazione può essere in alcuni casi di timore, un timore che – come nella vita reale – può trasformare una persona tranquilla in una bestia assetata di sangue spinta da un unico scopo: eliminare fisicamente chi gli dia fastidio, sperando che la morte o la sua emarginazione siano lente e dolorose.

Sono le 02:35 a.m. PST e il sole è ormai tramontato da un pezzo dal cielo pallido e senza nuvole di SL, almeno nell'area in cui mi trovo in questo momento. La zona ricorda il quartiere Shiodome Shiosite di Tokyo e, come questo, è praticamente deserto, soprattutto nelle ore tarde della notte. In genere preferisco non forzare la luce solare a un orario diverso, anche perché SL in versione notturna ha un fascino estremamente suggestivo. Passeggio costeggiando alti grattacieli, seguendo una strada in leggera salita punteggiata da lampioni che lanciano brevi sprazzi di luce sul cemento liscio del marciapiede.
Alla destra dello schermo ho il monitor di un recente radar acquistato in un negozio cinese, che mi permette di vedere chi ci sia nei paraggi evidenziando il nome e la data di nascita in verde o rosso a seconda che l’avatar si trovi a una distanza superiore o inferiore ai 20 m.
All'imbocco di una traversa il radar mi avverte della presenza di tre persone a una cinquantina di metri. Proseguo camminando lentamente. La strada diventa a poco a poco una statale a due corsie, una strada mai percorsa da alcun mezzo meccanico, che si inerpica gradualmente sulla cresta di un'altura. Continuo a camminare giusto per la soddisfazione di capire dove vada a finire. I palazzi iniziano a scomparire gradualmente dallo schermo e, al loro posto, si va costruendo a pezzi e a frammenti successivi l'immagine di una scogliera ripida e aspra che precipita per un centinaio di metri sulla destra in un mare piatto e tranquillo.
Un caseggiato lontano si perfeziona a poco a poco mentre mi avvicino; parti di tetto e del rivestimento della facciata arrivano progressivamente coprendo gli spazi vuoti, mentre la luna si riflette in modo improbabile sulla distesa piatta del mare.
Mi alzo dal computer per preparami qualcosa da bere, lasciando il mio avatar di fronte al precipizio. Perdo tempo con una telefonata in arrivo e, mentre sto per concludere, noto una serie di frasi che si compongono sulla sinistra dello schermo.
Non riesco a seguire il senso, parlando al telefono. Frasi smozzicate, incomplete, in uno slang americano da quartiere depresso. Termino la chiamata ed entro nella cronologia.
Le voci sono ancora lontane, dato che appaiono in una sfumatura verde pallida. Una cosa è certa: non sono frasi di benvenuto.
Attivo uno scan con il radar e noto che le tre figure di prima sono ora a una ventina di metri da me. Faccio finta di niente e riprendo a camminare, senza alterare la velocità del passo, mentre la Minimap mi conferma i tre punti verdi in avvicinamento lungo la strada.
Le voci si avvicinano, diventando improvvisamente bianche, proprio mentre il radar indica ora i tre nomi in colore rosso. Siamo sotto la soglia dei venti metri. Mi fermo e mi volto.
Le tre figure si fermano anch’esse. Appaiono leggermente indistinte, non altrettanto le parole che compaiono a sinistra. Mi insultano pesantemente chiedendomi prestazioni sessuali e minacciando, in caso contrario, delle ritorsioni terribili. Il primo, il più avanzato, è un tipo grande e grosso a torso nudo, pesantemente tatuato, con orecchini e occhiali a specchio dai riflessi arancione che lasciano sprazzi nell’oscurità. Il secondo è più basso, con un paio di jeans strappati e il volto standard da newbie. Indossa una teeshirt bianca e scarpe da ginnastica. Il terzo…non so cosa sia. Un animale mostruoso, come un pipistrello costretto a procedere sul terreno raspando con i pollici artigliati e procedendo in modo orribile a balzelloni muovendo alternativamente le lunghe ali nere sulla strada come schifose mani anchilosate.
Rispondo per le rime cercando di ferirli quanto più possibile. A quel punto tra le mani del newbie compare un'arma futuristica, un enorme cannone da robot giapponese degli anni ‘70. Non ho il tempo di focalizzare la cosa che un bagliore mi scaraventa a una ventina di metri lungo la strada. Riesco a rimettermi in piedi e a voltarmi verso il caseggiato che ormai ha preso forma completa. Osservo la Minimap e noto che i tre sono lontani. Un nuovo bagliore si riflette sulla strada a qualche metro da me. Il sim in cui mi trovo non permette attività di volo, quindi setto il sistema di corsa automatica e procedo spedita verso la casa, aprendo nel contempo l'inventario per teletrasportarmi da qualche altra parte.
Un altro bagliore indica che il tipo ha sparato di nuovo, ma un attimo prima il comando del tp annerisce lo schermo.

Eccomi in un nuovo sim, indistinto, in cui compaio grigia per metà. È una spiaggia, con tanto di ombrelloni, anche se non c’è sole a causa dell’orario e neppure anima viva, situazione confermata dalla mappa. Il mare sciaborda sulla risacca con un gran rumore che riempie la stanza. Rimango per un attimo a riprendermi con lo schermo ancora affollato di finestre aperte, quando a qualche metro da me compare la figura del newbie, che ancora imbraccia l’arma da robot. Mi prende il panico. Come avranno fatto a capire la mia destinazione?
La Minimap conferma l’arrivo degli altri due. Inizio a correre lungo la spiaggia.
Ruotando per un attimo la telecamera noto che fra le gambe del tatuato è comparso un grosso membro eretto, segno chiaro delle intenzioni del tipo. Una botta da dietro mi fa piroettare per una ventina di metri. Mi sollevo in volo, ma i tre mi seguono senza staccarmi di un metro. Poi ricordo…
“Fist of God” si chiamava, o qualcosa del genere. È stato il frutto di uno scambio con abiti freebie; il polacco, alto e calvo, programmatore di professione, mi aveva consigliato di usarlo solo caso di estrema necessità.
Inizia una ricerca affannata nell’inventario, mentre cerco di tenere d’occhio i tre che mi seguono da presso. Non lo trovo. Vado in panico, mentre mi affanno alla ricerca dell’oggetto, cambiando di continuo la velocità e la quota di volo. Eccolo!
Indosso l’oggetto che si trasforma in una specie di aureola grigia a una cinquantina di cm sopra la mia testa e, nello stesso momento, appare la finestra con le istruzioni. Cazzo, sono in polacco!

Le parole dei tre si susseguono sulla sinistra dello schermo. Parole di scherno, insulti, minacce, mentre un nuovo colpo parte dall’arma e si perde nell’atmosfera alla mia destra con una lunga scia bianca.
Cerco di ricorrere alle assonanze col poco russo che ancora ricordo e individuo il punto: la combinazione di tasti “/5 k nom.av.” mette fine prematuramente all’avatar obiettivo. Così sembra dire il testo. Non so cosa significhi, ma vale la pena di tentare. Scrivo freneticamente inserendo il nome del tipo tatuato, e invio. Nulla. Osservo il radar, sono oltre i venti metri; forse siamo troppo lontani. Decido di rischiare fermandomi e iniziando a scendere di quota cercando di raggiungere la spiaggia... al massimo posso sempre resettare.
Atterro sulla spiaggia mentre i due avatar umani toccano terra quasi contemporaneamente a me; l’animale mostruoso rotea intanto con le ali nere a una decina di metri sulla nostra testa.
“Vediamo cosa sai fare con quell’affare” dico al tatuato, mentre il newbie mi scarica l’arma addosso facendomi ruzzolare per una ventina di metri.
Segue una serie di insulti fra i due e, in un attimo, l’arma scompare dalle mani del tipo in maglietta bianca.
Il tatutato si avvicina: 5 metri, 3. Inserisco il codice e invio. Il tale si sbriciola risucchiato in se stesso. Un piccolo turbine di pixel multicolori permane per un attimo nel punto in cui si trovava il tipo, per poi dissolversi all’istante. Caspita, funziona! Dio benedica i polacchi!
Il newbie inizia ad affannare.
“Come hai fatto, troia?” mi dice mangiandosi le parole, mentre sul lato dello schermo noto la bestia che sta atterrando a una qualche metro da noi.
“Adesso te lo faccio vedere…” penso mentre digito il codice seguito dal suo nome. Il newbie scompare come calpestato da una forza immane, proprio nell’istante in cui – in un ultimo tentativo di reazione – gli ricompare fra le mani l’arma giapponese.
Ne manca solo uno ora.

È questo il momento di cui parlavo, un momento di bieca soddisfazione in cui vorresti prolungare all’infinito la sensazione di vendetta. Una sensazione che, in questo momento, è l’unica cosa che conti veramente nella tua vita. Mi rendo conto di avere le mani sudate che tremano.
Parole sconnesse compaiono sulla sinistra dello schermo, ma non faccio caso al senso: non devo dargli la possibilità di tp da qualche parte.
Mi avvicino zoomando verso la sua faccia. Una faccia da cane, con denti aguzzi e uno sguardo livido. Dò l'invio osservando da vicino l'effetto: l'immagine si comprime, si frammenta progressivamente, come se fosse finita sotto una pressa dalla forza prodigiosa. Poi più nulla.

Tremo. L’adrenalina mi fa sobbalzare più volte sulla sedia. Non credevo fosse possibile una cosa del genere. Faccio un check con la finestra di search, ma i tre risultano essere offline. Chissà per quanto ancora, forse solo il tempo di rientrare. Mi sconnetto prima di avere altre brutte sorprese e mi verso un'Anisette che tracanno in un sorso. Sono sudata fradicia e m'infilo sotto la doccia pensando alla soddisfazione appena ottenuta.

Non credevo che SL si prestasse in modo così realistico a far vivere sensazioni quasi fisiche, così come ad innescare torrenti di adrenalina o sensazioni di panico e paura quasi patologiche. Non è stata una bella esperienza, certo, ma in un mondo che si rispetti anche questa è una caratteristica positiva, che lo rende vario e imprevedibile quanto lo è il mondo della realtà fattuale. Come sempre bisogna avere le doti e gli strumenti per sopravvivere, unitamente a una buona dose di fortuna e a una vitale capacità d'improvvisazione.

giovedì 22 febbraio 2007

Deliri influenzali



È da qualche minuto che sto appoggiata alla finestra a osservare i ragazzi all’uscita dalla scuola qui di fronte. Sto sorseggiando uno di quei beveroni al paracetamolo dal forte gusto di lampone industriale, sperando che mi aiuti a superare quell’accesso febbrile che dall’arrivo a Bucarest mi sta tormentando. I ragazzi schiamazzano, rumori di motorini, baluginii di cellulari e occhiali da sole all’ultima moda: che differenza rispetto ai ragazzi del ’90, quando questo paese si apriva alla sua nuova vita democratica. Un cane, dall’altra parte della strada, passa veloce tenendo d’occhio il gruppo.

All’improvviso avverto una vibrazione, poi una sensazione di vertigine. Le cose cominciano a sbriciolarsi, perdo l’equilibrio. La prima idea è quella del terremoto, una replica della tragedia del ’77, in cui il 70% della città rimase mutilata. Inizio a cadere. Sento un dolore al ginocchio sinistro, mentre la tazza precipita con un tintinnio qualche metro più giù.

Mi rialzo senza problemi. Niente. C’è qualcosa di strano. I ragazzi non ci sono più. La piazza è silenziosa e mi trovo al bordo di una piscina che non avevo notato prima. Dagli speaker giunge il lugubre ululato di una sirena. Ma che sta succedendo? Poco più in là tre figure stanno parlando fra loro in giapponese. Uno è alto, vestito di nero, con le ali; il secondo è qualcosa fra un djinn e un orsacchiotto di peluche, che rimane sollevato da terra di circa un metro. La terza è una figura indistinta, una ragazzina con le trecce di moda nel quartiere di Harajuku. Non parla.
I due mi si rivolgono in giapponese. Rispondo con una frase fatta e inserisco il traduttore automatico. Lo stesso fa la figura nera, alla mia sinistra.

“Ci siamo quasi” dice la voce.

“Cosa sta succedendo? E’ tutto molto strano” gli chiedo.

Sto osservando la lista degli ideogrammi che compare sulla sinistra in attesa della traduzione in inglese, quando in lontananza il cielo s’illumina improvvisamente. Un bagliore fortissimo, come i mille soli di un’esplosione nucleare.

“Non guardare o perderai la vista” dice la voce.

Lo schermo è quasi bianco. A malapena riesco a intravedere gli ideogrammi che preludono a una nuova frase.

“I griefer avevano promesso di sferrare un attacco ai centri del potere e lo hanno fatto: Linden Lab, Reuters palace, Nagaya, l’area di Anshe Chung. Nessuno escluso”.

Per un attimo mi viene un groppo alla gola. E’ dal 90 che vivo nel costante incubo di quello che sto vivendo in questo momento.

“Cosa hanno usato? Missili? Aerei da bombardamento?”

“Kamikaze” dice la voce. “Vieni che ti mostro una cosa”.

Mi afferra per un polso con una particolare animazione e inizia ad alzarsi sulla verticale. L’orsacchiotto rimane alla mia destra muovendo la testa a destra e sinistra. A poco a poco prendono forma tre grandi funghi di vapore, il più vicino dei quali sta gradualmente cambiando in forma e dimensioni.

Kamikaze. Devono avere usato delle ADM,
dalle dimensioni del fungo a occhio e croce di 10-15 kT di potenza. L’angelo nero ha iniziato una lenta virata e ora punta verso la base del fungo.

“Fermati. Sei impazzito?” gli grido, mentre le mie parole si trasformano in ideogrammi. Il tale non risponde. L’orsacchiotto è sparito. Cerco di divincolarmi. Niente. Provo a usare il teletrasporto. Niente da fare, l’angelo nero mi trattiene con una mano di ferro procedendo a capofitto all’interno del fungo.
Al ground zero la temperatura deve essere dell’ordine dei centinaia di migliaia di gradi, il che significa che negli strati bassi dell’atmosfera i gradi sono migliaia. Mi prende il panico, inizio a gridare.
Provo ancora col teletrasporto. Niente da fare. L’animazione deve essere studiata in modo che chi sia vincolato non possa liberarsi in nessun modo. Imploro di lasciarmi restando per un attimo in attesa degli ideogrammi che non arrivano, mentre la quota diminuisce paurosamente.
Lo schermo sta passando repentinamente dal bianco al rosso attraverso tutte le sfumature del giallo e dell’arancione. Il panico aumenta. La paura mi fa battere i denti. Grido.

Mi sveglio ansimando.

La casa è gelata. Sono scossa da un brivido irrefrenabile, segno che la febbre è ancora alta. Prendo l’iPod sul comodino per guardare l’ora. Le 03:48 ora di Parigi, le 04:48 ora di Bucarest. La grande città è addormentata. Solo il latrato di un cane lontano e passi che si perdono nel silenzio della notte.

Sindrome di Schnitzler, di Luis Buñuel, non saprei. Parlavo tempo fa di paletti psicologici, di argini da anteporre alla perdita del controllo psicologico di se stessi una volta che si è compiuto il salto nel mondo digitale di Second Life. Tutto questo avviene senz’altro quando il controllo emotivo è totale, quando cioè non ci siano condizionamenti o diversioni apportate da particolari sensi di debolezza fisica o mentale. In caso contrario tutto viene alla luce, mostrando quanto i limiti fra le due realtà siano spesso più una convenzione che un reale dato di fatto. Il difficile spesso sta nel capire dove inizi una e dove finisca l’altra.



lunedì 5 febbraio 2007

Imbecilli 1



Nella vita reale la presenza di imbecilli è un fatto talmente consolidato da passare spesso in secondo piano. Non tanto perché ciò non dia fastidio, ma perché l'abitudine di avere a che fare con personaggi dall'indubbia limitazione mentale è così normale che farsene un problema sarebbe per lo meno fuori luogo.
In SL la situazione è ancora più accentuata. Lo spazio virtuale favorisce infatti il proliferare di deficienti, piombati quasi per caso in un mondo che considerano a loro uso e consumo, proprio in virtù del fatto che l'apparente mancanza di regole trasforma delle tentazioni normalmente controllate nella RL in fenomeni da esagerare e da portare al parossismo, come se si fosse dominati dal gusto autolesionista di vedere come va a finire. E i risultati, neanche a dirlo, sono sempre a sfavore di chi tali comportamenti li mette in pratica.
Parlavo di apparente mancanza di regole. Sì, perché anche se non sembra, SL può diventare una prigione a cielo aperto, uno spazio sempre più limitato di azione, fino a trasformarsi in un mondo da incubo, ridottissimo, in cui la propria presenza diviene progressivamente sempre più limitata e inutile.

Mi trovavo con Eva in un locale raffinato. Ci conoscevamo da poco e - per evitare la staticità di un discorso a due sedute a un tavolino o appoggiate al bancone di un bar - avevamo deciso per due passi di step sulla pedana multicolore della sala da ballo.
L'atmosfera era assolutamente perfetta: poca gente, una splendida canzone di Michael Franks come sottofondo e una serie di realissimi passi di danza che - per una volta almeno - apparivano perfettamente sincronizzati.
E' strano, ma preferisco ballare con le donne, non tanto per motivi di particolare gusto sessuale, ma per il piacere estetico che mi provocano due donne che ballano in SL. Le movenze sinuose e seducenti dimostrano infatti che i programmatori delle animazioni si sono prodigati molto di più con le movenze femminili, che non con i rudi e spigolosi passi di danza maschili. E ciò - disgraziatamente - non fa che attirare ancor di più chi in SL perde il proprio tempo in cerca di improbabili attenzioni sessuali.

La luce stava passando gradualmente alle tonalità ambrate del tardo pomeriggio e, proprio per il numero assolutamente esiguo di persone presenti, il lag generale era contenuto. La melodia di Michael Frank si era stemperata in una languida canzone di Gladys Knight ed ecco il classico cretino che rompe un'atmosfera quasi ideale.
Si era messo alla nostra sinistra leggermente al di fuori del mio angolo di visione con la sua squallida, plastica carnagione da newbie e i capelli da bambola di silicone trattato. Il ritmico, irritante movimento delle mani anticipava di un attimo una serie di apprezzamenti pesanti e una serie di frasi sconnesse, articolate per il solo gusto di dare fastidio.

Il tale rimaneva nella stessa posizione. Vedevo solo le mani che si muovevano ritmicamente e mi resi conto in quel momento di odiarlo dal profondo per la sua limitatezza mentale, per avere rotto un incanto e per la sua insistenza fastidiosa, come una cimice nel letto sudicio di un albergo di Luanda. Più che una proposta erotica era il gusto sadico di dare fastidio, un'apoteosi d'imbecillità e petulanza.
Le minacce di prendere dei provvedimenti non davano risultati. La sua caparbietà nel dare fastidio era tale da non fargli pensare ad altro che a rispondere in modo sempre più concitato alle nostre minacce. La situazione si è protratta per qualche minuto, in modo sempre più irritante.
Abbiamo iniziato a pensare di cambiare locale, mentre un fiume di parole si accavallava sulla sinistra dello schermo. Il tale stava ora questionando con qualcuno che non era visibile. Mi sono sentita dare del gay giapponese e ho risposto per le rime, ma da quel momento non sono più riuscita più a seguire il discorso, tante erano le parole, gli insulti, gli improperi, mentre le mani di plastica si agitavano sulla sinistra dello schermo, annegate in un mare di lettere verdi e bianche.
Ci siamo voltate entrambe verso il cretino e, a fianco del newbie, è comparsa la visione di un piccoletto con i capelli lunghi, bianchi, raccolti in una coda di cavallo. Ecco a chi erano indirizzati gli improperi, a uno sfigato che veramente sembrava un gay giapponese.
Ho iniziato a ridere senza riuscire a trattenere le lacrime. L'unica soluzione era un teletrasporto rapido in un luogo più tranquillo e, in un attimo, della scena ne è rimasta solo la pallida evanescenza di una serie di parole senza senso.

La capacità di alcune persone di rendersi insopportabili trascende da qualsiasi comunicazione di ordine tradizionale e la serie di cordoni ombelicali che SL mette a disposizione permettono a volte ai parassiti e ai rompicoglioni di avere la meglio sulla gente che si fa i fatti propri. Sta di fatto che qualche giorno più tardi, dimentica della serata rovinata da quel rompiscatole, mentre mi aggiravo per un grande negozio giapponese, è comparso un messaggio in IM:
Ehi Ross, se vuoi farti quattro salti con me io sono sempre disponibile…"
Speravo di esserne sfuggita, ma mi sbagliavo. Era solo l'inizio di una lunga, infinita storia.

domenica 4 febbraio 2007

Walk sexy



Il grado di perfezionamento estetico di un avatar è direttamente proporzionale al tempo trascorso in SL. Sia in senso positivo sia in senso negativo. L'accumulo di esperienza nella manipolazione degli elementi strutturali di un av umano o di un furry è tale da discriminare in modo evidente chi frequenti SL da una settimana, rispetto a chi bazzichi per le vie digitali da un tempo molto più lungo. Il segreto non sta tanto nell'apportare modifiche sostanziali tutte in un colpo, ma di acquisire una vera e propria capacità di autolimitazione. Si tratta cioè di quella capacità acquisita che permette di aggiungere in modo graduale e indolore elementi e caratteristiche tali da variare in modo quasi impercettibile il risultato finale. Lo scopo è infatti quello di evitare di rendersi improvvisamente irriconoscibile o di guastare
in un colpo solo settimane di perfezionamenti e miglioramenti progressivi, perdendo di vista quello che è il fine ultimo e più importante di SL: essere una copia sempre più perfetta del mondo della realtà fattuale, ma con qualche miglioramento in più.

Rendere l'avatar sempre più reale e sempre meno legato alla manciata di pixel che ne costituiscono la struttura di base è dunque il motivo ultimo della manipolazione morfologica ma, soprattutto, quello di disporre di uno strumento che permetta di potenziare, quanto più possibile, il proprio grado di autocompiacimento.

Che sia innamorata di me stessa è indubbio. Passo delle ore a guardarmi e a migliorarmi e i risultati - almeno così mi sembra - sono tutt'altro che negativi. Ormai riesco a modellare il mio corpo con risultati soddisfacenti, risultati che nel mondo reale richiederebbero mesi di workout massacranti in palestra, regimi dietetici all'orlo della follia o decine di migliaia di euro in perfezionamenti estetici. Tutto questo però ha un costo, non tanto economico, quanto più di impegno e di sostegno morale.
Sì, perché l'attività di modifica delle proprie caratteristiche morfologiche non può né dovrebbe prescindere in genere dal supporto di un consulente. Si tratta di qualcuno di assolutamente fidato, che ti consigli e ti convinca su quale sia la scelta migliore, senza tuttavia interferire in modo troppo deciso sui tuoi voleri personali. Un po' come il chirurgo plastico di fiducia che, al di là dell'eseguire alla lettera quanto tu direttamente richiedi, ti consigli per il meglio circa le scelte e i risultati finali e, soprattutto, che sia fidato al punto da essere sicuri che non si faccia prendere dalla smania di strafare. Certo, perché l'intervento ostile di un consulente non fidato può tramutarsi in un'arma terribile, che può determinare metamorfosi incontrollabili e disastri irrecuperabili, tali da portare a decidere in modo drastico e drammatico di mettere definitivamente fine alla propria vita virtuale.
D'altra parte agire da soli non è quasi mai il modo vincente di operare, anche perché - oltre al piacere a se stessi - lo scopo ultimo è quello di piacere al prossimo. E il giudizio personale su se stessi è sempre troppo indulgente o, in certi casi, troppo severo, quindi mai veramente obiettivo.

Insieme alle manipolazioni strutturali esistono poi una serie di altre caratteristiche che possono rendere se stessi più o meno piacenti. Una delle potenzialità che permettono a un abitante di SL di differenziarsi in modo evidente da un newbie è la camminata, situazione difficile da gestire, tanto quanto da mettere in pratica, proprio per la facilità di ridicolizzare in modo definitivo la propria immagine o di renderla molto diversa da quanto in realtà non ne rispecchi il carattere.

Ho acquistato di recente un paio di costose scarpe a zeppa, leggermente esagerate per gli standard di RL, ma ideali per passeggiare lungo le strade di SL e che si adeguano quasi perfettamente alle caratteristiche fisiche che mi contraddistinguono. Si tratta di un modello raffinato, con grandi suole che mi rendono ancor più alta di quanto io già non sia.
Come per gli occhiali, anche le scarpe possono cambiare colore, giusto per intonarle a qualsiasi vestito s'indossi; e, a renderle più complete, c’è poi la possibilità di variarne il colore dei lacci in modo autonomo rispetto alla tomaia. Mi sono costate un occhio, ma ne è valsa la pena e non solo per le sfumature cromatiche che esse presentano.

Mi trovavo nel centro di Amsterdam, con un discreto lag causato dagli innumerevoli elementi solidi utilizzati per ricreare l'ambientazione urbana, seduta in un piccolo bar a godermi il passaggio. Avevo indossato le scarpe e mi ero riseduta per tentare di cambiare le tonalità di colore. Le solite richieste di amicizia e i saluti ammiccanti si erano susseguite per gli ultimi dieci minuti, poi l'arrivo di una persona un po’ più interessante mi aveva per un attimo distratto dal recente acquisto. Sta di fatto che dopo circa una mezzora, stanca di continuare a osservare il mondo dalla stessa prospettiva, mi sono decisa da fare un giro nei paraggi. Ed ecco la rivelazione, qualcosa di mai sperimentato e che da quel momento mi ha cambiato la vita: invece dell'incedere a passetti, con l'andatura classica da marionetta che tanto contraddistingue i più biechi newbie, il mio corpo ha iniziato ad ondeggiare e a camminare come nessuna delle più scafate mannequin potrebbe mai riuscire a fare. Uno sculettamento tanto sexy da entusiasmare non solo il gruppetto di avventori del locale, ma soprattutto me stessa.
Neanche a dire che la passeggiata lungo la Damrak ha lasciato un segno, quasi si sia trattato di un rito di passaggio a una nuova dimensione sociale in un mondo che di giorno in giorno diventa più complicato. Strascichi importanti ce ne sono stati, non ultima la mania quasi patologica per le scarpe, che ora non mi tolgo neanche per andare a fare il bagno in piscina. La camminata a passetti è diventata ormai una vergogna da consumare solo a casa propria o lontani da qualsiasi sguardo estraneo. Un po’ come la postura impalata che tanto contraddistingue i nuovi venuti dai veri abitanti di SL.
Ma questa è un’altra storia.

domenica 21 gennaio 2007

Acquisti africani



Sto cercando di rilassarmi seduta al bordo della piscina del Moevenpick Hotel del Cairo, in attesa che un aereo dell'Armée de l'Air si decida a riportarmi a Parigi. Ho tentato di collegarmi a SL in questi giorni, ma senza successo. L'Africa non è un continente virtuale. Qui tutto è solido, materiale, persistente, come l'odore acre di Mogadiscio che ho cercato di cancellare con tre docce, senza però riuscirci. L'albergo offre la connessione a Internet, ma la linea wireless va e viene. L'unica possibilità è restare in camera, anche se il tepore invernale egiziano e il bicchiere di ayran aromatizzato alla menta che ho di fronte sono così convincenti da farmi preferire un atteggiamento da turista, alla ricerca di un relax di cui ho un terribile bisogno.
Sono riuscita a tornare in SL per un momento solo oggi, giusto il tempo per mandare un paio di messaggi e fare un po' di compere. Sì, un po' di compere. E' questa infatti un'attività che mi permette di non dover prestare troppa attenzione alle relazioni, lasciandomi il tempo di vivere SL in una delle sue manifestazioni più reali e più coinvolgenti.

L'atteggiamento di frenesia e di quasi erotica eccitazione all'atto dell'acquisto è un fenomeno comune in SL, soprattutto nel momento in cui le cifre in questione sono alte. L'idea di rendersi conto di essere sul punto di bruciarsi quei pochi soldi che faticosamente si è riusciti a racimolare ha dell'eccitante, soprattutto perché qui non si devono fare i conti con la sopravvivenza immediata; in pratica, è possibile rimanere senza un soldo e continuare a sopravvivere senza problemi.
Ma il bello è proprio il momento fatidico, quando cioè la scarica di adrenalina che anticipa il click sull'ordine di acquisto ti pervade calda ed eccitante, equivalente a una sniffata di cocaina, come una sensazione inebriante che ti sconquassa per un attimo, senza però lasciarti dentro quasi nulla, se non il rimorso per aver compiuto un gesto tanto azzardato quanto inutile.
Sta di fatto che entrando in un negozio in SL l’atmosfera e le sensazioni sono assolutamente simili a quelle che si provano varcando la soglia di una boutique di rue Faubourg St Honoré a Parigi o di via della Spiga a Milano, con due differenze sostanziali però: non c’è nessun commesso che ti rompa i coglioni durante la scelta e il tuo ingresso ha sempre qualcosa di plateale, di improvviso – se ottenuto mediante teletrasporto – oppure, quando entri in volo come un piccolo aereo senza motore, di ponderato, di misurato, di superiore.

Mi trovavo da qualche minuto di fronte alla vetrina interna di un negozio di occhiali, una mia passione non solo qui in SL. La decisione pareva più lunga del previsto, sebbene abitualmente non ami perdere troppo tempo in questo genere di attività. Mi stavo godendo la situazione e questo era ciò che più contava.
Il locale era piccolo, conosciuto, abbastanza tranquillo, con un piacevole sottofondo musicale tratto dall'ultima compilation di Alex Bugnon.
Stavo cercando di decidere se il paio di occhiali ovali mi stessero bene o mi conferissero un'aria troppo intellettuale e mi stavo dannando con il sistema di aggiustamento tridimensionale, basculando continuamente intorno alla mia faccia cercando di guardarmi da tutte le angolazioni possibili. Gli occhiali mi piacevano abbastanza, anche se non ne ero totalmente convinta: si poteva cambiare il colore delle lenti e della montatura e, soprattutto, si poteva osservare e sentire a distanza senza dare troppo nell'occhio. Un'avveniristica versione di NVG insomma, come neppure il più sofisticato degli equipaggiamenti militari attualmente in dotazione può vantare. Ed era questa la caratteristica che mi conferiva quella particolare condizione di eccitazione in vista dell'acquisto, anche se, come ripeto, non ero del tutto convinta della scelta.
Una voce è comparsa all'improvviso sulla sinistra dello schermo formulando una domanda in francese. Una domanda banale, senza secondi fini, inutile, così come la mia risposta in inglese. Sono seguite un paio di altre domande a cui non ho risposto e che ho lasciato affievolirsi sullo schermo fino a farle scomparire. Poi le domande e i suggerimenti sono diventati insistenti, come l'ostinazione irritante di un venditore di bazar. Non volevo apparire scostante, ma non avevo voglia di fare conversazione.
L’uomo – almeno così sembrava dal nome – continuava imperterrito, proprio mentre decidevo se spendere o meno i preziosi 600 L$.
Mi voltai operando sul controllo della telecamera, ma non vidi nessuno. Ruotai fisicamente su me stessa. Niente. Eppure il tipo non stava usando l’IM, quindi sarebbe dovuto essere nei paraggi. Evitai una risposta al solito apprezzamento sulle mie gambe, poi improvvisamente mi resi conto: il tipo usava un francese d'oltremare, come quello parlato nei locali di Algeri o di Orano.
Presa dalla curiosità sono uscita dal locale, ma non c’era traccia di alcuno.
"E' da un po' che ti osservo" ha detto all'improvviso la voce. "Avrei spostato leggermente la montatura di qualche grado a sinistra".
“Dove sei?” gli ho chiesto con foga. “Perché non ti fai vedere? Che fai, lavori per il negozio?”
Il tipo non ha risposto, continuando a dare suggerimenti sulla scelta e sull’acquisto e continuando – in modo sempre più insistente – a pormi domande personali, facendomi complimenti sulle mie misure e sulle efelidi che punteggiano la mia faccia e le mie spalle.
Mi sentivo osservata, radiografata, ma la cosa strana era che neppure gli occhiali speciali si accorgevano della sua presenza.
Ho deciso di stare al gioco iniziando a indagare sulla sua vita. Dapprima le informazioni sono giunte a frammenti, poi il tale si è fatto prendere dalla foga e ha iniziato ad aprirsi. Finché, a un certo punto, non ho iniziato a sentire un brivido freddo lungo la schiena.
Per qualche motivo il tipo stava usando un programma che lo rendeva invisibile a chiunque, forse addirittura ai tecnici del Linden Labs. Ma, a poco a poco, iniziavo ad avere il sospetto di dove si trovasse fisicamente. Certamente al Cairo, certamente nella hall di un hotel.
Ho deciso di comprare gli occhiali e di disconnettermi. Neanche a dire che la scarica di adrenalina di cui parlavo è stata sostituita da un banale, quanto irritante rumore metallico di cassa automatica, unito alla frenesia di fare presto, concludere l'acquisto e trovare una scusa qualsiasi per lasciare il negozio. L'importante era staccare. E di corsa.

Il bello di comprare su SL è proprio che nessuno normalmente suggerisce cosa e come scegliere, nessuno interferisce in una serie di valutazioni che – spesso – sono un semplice modo per trascorrere il tempo meditando sulle proprie sensazioni. Ma questo, a quanto pare, è un concetto da rivedere.



domenica 14 gennaio 2007

Stati alterati della coscienza



E' più di un mese ormai che vado in giro per gli spazi in espansione di SL e non mi sono ancora stancata, anzi. Da un lato c'è la curiosità quasi morbosa di perlustrare un mondo che è in continua evoluzione, variegato e sofisticato, dall'altra il fascino quasi perverso di sperimentare sensazioni un tempo solo immaginate o, in alcuni casi, semplicemente vissute nell’incoerente, onirica dimensione dei sogni di primo mattino. La costante consapevolezza di rischiare sempre più cadere nel baratro dello sdoppiamento della personalità è forte, un fenomeno così attraente e così pericoloso al tempo stesso da necessitare una serie di paletti psicologici ben saldi.
Mi sono posta il problema spesso in questi giorni, rendendomi conto di scivolare in certi momenti in un vero e proprio stato di alterazione della coscienza, sebbene tale definizione non sia psicologicamente corretta. Più che uno scarto di personalità si tratta piuttosto di indossare un vestito fatto di carne e di ossa, di assumerne gli atteggiamenti, i comportamenti sociali, perdersi in esso fino ad annullarsi, dimenticandosi per un periodo di tempo variabile delle lievi e inconsistenti imperfezioni dello spazio digitale, lo spazio asettico incontaminato di SL che sto vivendo da qualche settimana come la mia prima vita. Il dramma si presenta sempre più spesso all'atto del ritorno, a quei brevi momenti che separano un log-off da una nuova connessione, che mi fanno ripiombare in modo traumatico nelle consuete dimensioni della vita fisica.
La donna reale che ormai impersonifico con sempre meno convinzione si sta a poco a poco trasformando in un pallido riflesso di Rossana, se non fosse per le fattezze orientali, l'altezza e il fisico asciutto. La donna che conoscevo bene un tempo si sta trasformando in qualcosa che sta a poco a poco sta perdendo spessore, che diviene inconsistente e reale solo per qualche momento, portando alla donna vera, a Rossana Fleury, quel bagaglio di lunga esperienza accumulata in anni di vita e di lavoro in giro per il mondo. Nient’altro.
Mi osservo di tre quarti riflessa da uno specchio all'aeroporto di Milano, in attesa che un aereo olandese mi porti a Tel Aviv via Amsterdam, dannandomi con la rete wireless che non mi consente di immergermi ancora per un attimo nelle atmosfere fatate di SL. Non noto differenze essenziali da qualche anno fa. Mi sembra di non invecchiare, quasi che la staticità temporale di Rossana sia in realtà qualcosa di preesistente, di immanente alla mia persona; che ci fosse solo bisogno di evocarla e di sollevarla da uno stato di eterno torpore.
E' da tempo che sto pensando a una soluzione alla netrunner, quell'individuo di gibsoniana memoria che collegava il proprio cervello alla rete viaggiando verso le spettacolari luci della città di Chrome. Ma la tecnologia ancora non è arrivata a tanto, né avrò forse mai la fortuna di sperimentare tali impressioni sconvolgenti. Sarebbe bello però poter avere impressioni fisiche, dolore, freddo, senso di vertigine, sapori… le uniche cose che veramente mi mancano mentre sorvolo isole digitali e costruzioni fantastiche.
Nelle ore precedenti il mio trasferimento verso l'aeroporto ho bighellonato per un po' di tempo tra il Phat Cat's club e lo Sphynx, due circoli jazz molto alla moda, il primo quasi impossibile da raggiungere perché molto, troppo frequentato, l'altro tranquillo, senza confusione, da cui è possibile osservare spettacolari tramonti digitali attivando coreografie pirotecniche di sicuro effetto.
Al Phat mi sono intrattenuta a parlare con un paio di hosts e con il titolare, un americano alto, sempre cordiale, che - nei rari momenti di busy mode - rimane appollaiato sul cartello indicatore, quasi stia osservando dall’alto la scena e che si assicuri che tutto vada per il meglio.
Un tale mi ha coinvolto in un tango tranquillo. Un tipo anziano, con uno smoking attillato, i capelli bianchissimi corrosi da una forte stempiatura, e un fare raffinato, leggermente sotto tono. Sulle note di un vecchio brano di Lee Ritenour si è lasciato andare parlando di se stesso. Una vita infelice, un arresto cardiaco, ore tra la vita e la morte, l'impossibilità di condurre una vita normale, SL come rifugio da una vita ormai inutile e dolorosa. Mi ha fatto pena e ho cercato di stringere un'amicizia, ma si è subito allontanato rifiutando la mia richiesta. Si è scusato, poi è calato il silenzio. Ho avuto l’impressione che non fosse mai esistito, che mi fossi immaginata tutto. Gli ho chiesto di trasferirsi allo Sphynx, per parlare con più tranquillità, e ha accettato; poi, all’atto del teletrasporto, è sparito, come la scia di una stella cadente in una notte d’estate.
L’ho aspettato per un po’, l’ho cercato, ma il suo nome non era più raggiungibile, non era neppur presente tra gli avatar offline, quasi che la sua presenza fosse stata una semplice immagine sfocata di qualcosa di inconsistente, spettrale, giunto a me da una dimensione diversa per rendermi partecipe della sua angoscia.
Una profonda, sottile tristezza ha iniziato a pervadermi lentamente. Mi sono appoggiata alla balaustrata del locale guardando in lontananza e sperando in un segno. Nulla.
Ho disattivato lo stream musicale proprio nel momento in cui la bartender giapponese dello Sphynx mi offriva un Bentley in un grande bicchiere opalino. L’ho assaggiato tentando di indovinare un sapore impossibile, cercando di distinguere l’aroma del Calvados tra le labili fragranze del Dubonnet senza però riuscirci. L’immaginazione, almeno questa volta, non mi è stata d’aiuto.


mercoledì 3 gennaio 2007

Capodanno digitale



Mi sto muovendo a un centinaio di metri di altezza su un mare piatto, senza increspature. L'unica sensazione è un fruscio leggero di vento, come veleggiare su un aliante in uno spazio senza dimensioni. Il sole alla mia destra si sta trasformando in una palla rossa, immensa, senza calore. Mi alzo di un altro centinaio di metri evitando le creste di un rilievo. Il vestito, vaporoso, di seta nera a falde, si muove dolcemente come la pinna caudale di un Black Moor in un acquario. Più in basso il nulla, se non uno strato biancastro di nuvole impalpabili.
L'ultimo modello di occhiali comprato nel pomeriggio mi avverte della presenza di qualcuno molto più in basso, mentre una lista di nomi inizia a comporsi a poco a poco sulla sinistra dello schermo. Ci siamo ormai. Seguo sulla mappa la disposizione dei punti verdi colorati e scendo dolcemente sulla verticale. Mi piace volteggiare senza peso fra le astratte costruzioni di SL, fra gli alberi digitali mossi da algoritmi variabili che li fanno ondeggiare in modo innaturale, ma così bello a vedersi. Preferisco i tempi dilatati del trasferimento in volo, anziché l'immediatezza del teletrasporto, il modo più facile per muoversi in questo spazio che di giorno in giorno si accresce sempre più.
I confini limitati e ben definiti delle abitazioni futuristiche compaiono ai miei piedi. Gli occhiali mi avvertono degli ultimi arrivati, poi cessano di funzionare: troppa gente ormai, la lista di estenderebbe a dismisura. Sono le 23:30 ora di Parigi del 31/12, le 14:30 del PST, orario ufficiale di SL, e la gente dall'area GMT +1 è in arrivo per festeggiare il nuovo anno in una discoteca alla moda.
Atterro fra creature bizzarre. Un furry mi saluta, un tale con un vestito da sera mi chiede un bacio, che gli nego, un samurai completo di Daisho sta parlando con una ragazza indiana in sari coperta di piercing.
M'infilo nel locale con un evidente lag informatico. Le immagini di me stessa iniziano a muoversi a scatti, mentre i lampi di una enorme discoteca escono a sprazzi da una porta gigantesca sempre aperta. Mi danno con le freccie della tastiera per riportare il movimento alla normalità, mentre un botto scuote i vetri della mia finestra di fronte al computer. La finestra del mondo reale intendo. In SL invece tutto è silenzio, sebbene il chiasso sia più che evidente per le innumerevoli voci che si levano da un fondo inconsistente, parole scritte in lingue e stili diversi che si susseguono senza interruzione sulla sinistra dello schermo e che svaniscono impallidendosi a poco a poco come suoni lontani portati da un'inconsistente brezza digitale. Solo un leggero rumore d'acqua corrente sembra giungere dagli altoparlanti del computer.
Due host mi salutano cordialmente: lei in abito lungo da sera di tonalità argentea, ha le spalle scoperte e una lunga chioma flex che le ondeggia a ogni minimo movimento; lui indossa un blazer blu, con un paio di scarpe fuori dimensioni. Mi accorgo che lei ha una pelle speciale, costosa, molto reale, picchiettata da leggere efelidi sul collo e sugli zigomi. Mi avvicino per osservarla meglio. Gli occhi azzurri mi fissano senza espressione, con la profondità di una bambola costosa. Il ritmico spostamento del suo seno è così reale che quasi mi sento imbarazzata a osservarla così da vicino. Mi guarda sbattendo gli occhi, restando fissa in una posizione sexy che cambia simmetricamente a seconda della direzione verso cui è rivolta, ma probabilmente non mi vede.
L'uomo si allontana silenzioso oltrepassandomi.
Lo schermo mi si affolla di frammenti di dialoghi, sbriciolati e leggeri, che si perdono quasi istantaneamente. Attivo la console del controllo musicale per rompere il silenzio irreale che riempie la mia stanza. Lo streaming di un brano hip-hop a tutto volume si fa largo con violenza. La qualità della trasmissione è altissima, quasi avessi inserito un cd nel lettore. Un grosso gruppo di afroamericani sta ballando. Alcuni in coppia con i colori delle bande del Bronx, due ragazze di colore si strofinano contro due neri enormi, muscolosi, con bracciali in oro che lanciano sprazzi di luce sul pavimento multicolore della discoteca.
Decido di attivare il sistema di script automatico e inizio a danzare ritmicamente al suono di un brano di Snoop Dog, mentre la host si allontana sculettando dolcemente nel vaporoso vestito argenteo che lascia intravvedere le lunghe gambe abbronzate. Tengo d'occhio la sala agendo sulla camera di controllo. Ecco i primi in arrivo.
Sono due ragazzi giovani in jeans, ben curati nei particolari, con tee shirt multicolori.
La richiesta viene anticipata dal ritmico ticchettare della tastiera, mentre il più basso dei due mima la scrittura con le mani piatte, quasi bidimensionali, segno di un recente arrivo in questo strano e labile mondo informatico.
Mi chiede in slang americano se ho voglia di fare due salti con lui.
Gli rispondo cercando di mantenermi quanto più possibile distaccata, ma senza dimostrare freddezza. In una notte così non è consentito.
Torna alla carica facendo i complimenti per i miei occhiali e mi chiede la provenienza. Rimango sul vago. La linea di confine fra il moralmente lecito e l'illiceità dell'occasione è così labile che basta poco a rovinare un incontro.
Il ragazzo butta il discorso sul personale, parla del fascino di una donna con le fattezze orientali, solite cose che - anche se consuete - mi danno sempre una minima soddisfazione.
Inizia a parlare di se stesso, di un corso di informatica avanzata alla Pacific University di Forest Grow, poi mi chiede di andare con lui da qualche parte. La proposta è sempre la solita, scontata e noiosa: fare del sesso digitale. Ecco la costante di SL. Taglio corto spostandomi di qualche metro, ma la sua voce mi giunge in IM, il sistema chat nascosto che permette di dialogare in modo personale.
Lo liquido bruscamente, mentre il secondo interviene cercando di intercedere per l'amico. Rifiuto una richiesta di amicizia e mi sposto di qualche metro ancora. Il ritmo della musica è sempre più ossessivo, mentre le immagini si muovono a scatti. Il tale dice qualcosa, ma evito qualsiasi risposta e, alla fine, le sue parole iniziano a perdersi nel fiume in piena dei tanti dialoghi che affollano lo spazio dello schermo.

Mancano 12 minuti allo scoccare dell'ora e la gente sembra essere sempre più numerosa. Il controllo della visualizzazione è sempre più difficile e frustrante. Decido quindi di concentrarmi sui due livelli di chat permettendo al mio avatar di ballare senza interruzioni.
Una voce mi giunge via IM, mi chiede informazioni sulla mia vita reale. E' un collega di una tv internazionale che sta passando le ore su SL provando a raccogliere materiale per un articolo. Iniziamo una lunga discussione sulle conoscenze comuni e sulla politica internazionale, della Somalia e del mio probabile viaggio in quell'inferno, dell'esecuzione di Saddam Hussein a Baghdad, di George Bush... mentre il tempo scorre senza sosta.
E' una situazione piacevole. Mi alzo un attimo dalla postazione e mi faccio un nescafé, mentre dalla strada giungono voci concitate di persone in attesa del momento fatale.
Rileggo le frasi che il mio nuovo amico mi ha scritto nel frattempo e rispondo concentrandomi, finché un suo messaggio non mi riporta alla realtà: manca un minuto allo scadere della mezzanotte. Gli chiedo come vive d'oltreoceano, a sei ore di
differenza, il passaggio al nuovo anno, qui, dall’altra parte del mondo. Anche per lui è un’esperienza strana, sebbene meno coinvolgente della mia. Poi mi arriva un’affermazione che mi colma di felicità: "come potrei lasciarti sola in un momento così importante?".

Ora mancano trenta secondi, venticinque... mi guardo intorno e scopro che siamo rimasti praticamente solo noi due sulla enorme pista da ballo della discoteca.

quindici, quattordici... vorrei abbracciarlo. Gli mando un messaggio rapido, pieno di refusi per la foga… Non so come si faccia ad abbracciare qualcuno in SL… forse mi manca lo script dell’animazione… non importa…

dieci, nove, otto... L'amico scandisce gli ultimi secondi in inglese, io glieli ripeto in francese.

Tre, due, uno.... HAPPY NEW YEAR!!! S novjm godom! Dice una voce in russo sulla sinistra dello schermo.
Ho un'agitazione addosso che mi fa saltare sulla sedia, così come lo spavento per una una serie di esplosioni giù nella strada. Il cielo di Parigi è illuminato a giorno. C'è gente che balla in mezzo al boulevard tre piani più sotto.

Torno al monitor e la faccia sorridente del mio amico appare diafana in un effetto realistico di nebbia all'anidride carbonica. Il lag sembra scomparso, tanto che posso girarmi e guardare ovunque senza problemi di sorta.

Decido di scollegarmi, mentre il mondo intorno a me sembra impazzito. Spengo il computer buttando giù l'ultimo sorso di nescafé ormai freddo. 
Mi infilo sotto la doccia con  la sensazione di aver trascorso uno dei capodanni più riusciti della mia vita. Fra un'ora potrei ricominciare e festeggiare con qualche amico inglese e ripetere, al contrario, quanto ha fatto con me il giornalista americano, ma preferisco lasciar stare.
Sarebbe come voler forzare la mano al destino.